Quando si parla delle tragiche vicende accadute durante la II Guerra Mondiale nei campi di sterminio nazisti, si usano indifferentemente i termini Olocausto e Shoah per ricordare il triste destino riservato a milioni di ebrei (ma non solo!). Esistono delle differenze tra i due temini e, soprattutto, quale dei due è preferibile utlizzare?
Secondo la Treccani “Olocausto e Shoah, quasi sempre scritti con la lettera maiuscola come un nome proprio, sono oggi univocamente legati alla persecuzione nazista e ai campi di sterminio come Auschwitz, mentre tutti gli altri termini sono usati per indicare anche altri drammatici episodi storici, come il genocidio del popolo armeno o il massacro di Srebrenica nella Bosnia ed Erzegovina.“
Interessante è anche la spiegazione offerta dal sito www.linkiesta.it nell’articolo dedicato a questo tema:
“Di olocausto si parla frequentemente nella Bibbia. Il vocabolo viene dal greco holókauston, composto di hólos (tutto, intero) e káio (brucio), ossia qualcosa che viene interamente bruciato. Presso gli antichi ebrei come presso i greci designava il rito in cui la vittima sacrificale era interamente arsa sull’altare.
L’olocausto è dunque un sacrificio completo (“sacrificio di fuoco dal profumo soave per Jahvé” è l’iterativa espressione formulare), adatto per espiare le colpe e per rendere grazie al Signore ottenendone così la benevolenza.
Holocaustum è il termine, derivato dal greco, che compare nella Vulgata latina. Per una singolare coincidenza, tuttavia, il corrispondente ebraico nell’originale della Torah (il nostro Pentateuco) ha una parola quasi omofona, almeno nel primo elemento del composto: olah, dal verbo alah che significa salire, andare su. Come il fumo che dalla vittima sacrificale sale a Dio. Come il fumo che nei Lager nazisti si levava incessante dai camini dei forni crematori, in cui a decine e centinaia di migliaia si dissolvevano nell’aria le vite delle vittime ebree (e sinti, e rom, e omosessuali).
Senonché questo vocabolo, proprio per l’idea di sacrificio offerto alla divinità, conteneva una ambiguità potenzialmente offensiva: i sei milioni di ebrei morti in quegli anni non erano certo un tributo per rendere grazie a Jahvé (in un celebre libretto di Zvi Kolitz pubblicato anonimo nel 1946, Yossl Rakover si rivolge a Dio, si immagina anzi che il protagonista, combattente nell’orrore del ghetto di Varsavia, chiami in causa il Signore per il suo silenzio), né l’espiazione di qualche imprecisata colpa. Il popolo eletto non poteva a lungo andare non ribellarsi alla maledizione che lo consegnava a un destino ineluttabile di vittima sacrificale. E così alla parola olocausto è subentrata poco alla volta quella nuova, adottata dapprima in Israele, dove fin dal 1951 è stata istituita una Giornata del ricordo dello sterminio (Yom ha-Sho’ah), e affermatasi nel resto del mondo soprattutto in seguito al monumentale film-documentario di Claude Lanzmann del 1985: intitolato, appunto, Shoah.

A differenza di Olocausto, che pone l’accento sulle vittime, oggetto dell’azione genocidaria, Shoah rileva l’azione stessa. La parola deriva dalla radice verbale sha’ah che esprime un’idea di distruzione/devastazione – e quindi, dal punto di vista di chi la subisce, disastro, catastrofe, cataclisma, sciagura, rovina, calamità – e che in questo senso è presente in diversi luoghi della Bibbia.
Una catastrofe incredibile e indicibile, dunque: forse anche per questo i ragionamenti sul nome più appropriato non sono conclusi. Pure Shoah, infatti, non va bene alle correnti più tradizionaliste della comunità ebraica, che preferiscono parlare di Hurban. Il significato è pressoché identico, dal verbo harav, usato nella Bibbia in riferimento a episodi di rovina e devastazione, tipicamente alla distruzione del primo e del secondo tempio di Gerusalemme: due eventi capitali nella millenaria storia del popolo ebreo, all’origine di altrettante diaspore, la seconda delle quali è stata ricomposta soltanto diciannove secoli dopo con la nascita dello Stato di Israele. Ma proprio la potenza evocativa e le connessioni religiose del verbo che sta alle spalle di hurban fanno di questo sostantivo l’anello lessicale di congiunzione tra quei lontani accadimenti identitari e lo sterminio di massa patito nel Novecento, che diventa così il terzo grande episodio di una vicenda ininterrotta di catastrofi e resilienza. Probabilmente, bisogna riconoscere, sarebbe questo il nome più connotante. Ma ormai per imporlo non basterebbe un nuovo Lanzmann.“